Israele,
2010
86 min.
Scritto e diretto da Avishai Sivan
Di spalle, un uomo, si scoprirà
un giovane, studente di yeshiva e figlio unico di una famiglia divenuta
ortodossa dopo fatti del passato appena accennati in sotto-dialoghi, attraversa
un ponte pedonale che collega due lati della zona in cui vive. All’inizio,
durante e alla fine del film, in momenti diversi delle giornate.
Silenziosamente. Come nel silenzio, e in un minimalismo ricercato che in quei
silenzi si specchia, e viceversa, s’inscrive Ha’Meshotet, primo lungometraggio di finzione del trentatreenne
regista israeliano Avishai Sivan, ma
noto da una decina d’anni per il suo lavoro di ricerca nei territori dell’arte
e del cinema sperimentale (tra le sue opere il monumentale The Soap Opera of a Frozen Filmmaker, antologia in sette episodi
realizzata tra il 2000 e il 2007).
Ha’Meshotet del cinema d’arte mantiene il rigore formale, l’estrema
rappresentazione di una forma che si ri-produce, di una costruzione narrativa
per appunti, che non sciolgono le situazioni. Mentre il pre-testo è altrettanto
ridotto all’essenziale e, come infine le immagini, alquanto semplificato. Ovvero,
la malattia fisica e il disagio mentale di un personaggio, l’errante, il
vagabondo, come si fa chiamare, Isaac,
prima e dopo la scoperta della sua sterilità, che rappresentano la malattia e
il disagio sociale di un intero paese e di generazioni differenti che lo
abitano (dai genitori del ragazzo agli amici di Isaac ai corpi anonimi da lui
incontrati nel suo vagabondare notte e giorno per le strade della città). Sivan osserva, come un documentarista e
da distante, istanti nella vita di un personaggio che assomiglia sempre più a
uno zombi, dagli occhi al modo di camminare, nel suo vagare muto, catatonico o
improvvisamente violento. Senza che da quello stato - anche quando, forse,
vorrebbe, recandosi al commissariato di polizia dopo avere stuprato una ragazza
ubriaca - esca mai. Sempre intrappolato dai muri che disegnano la geografia
antica e moderna della città (compresa l’inquadratura del muro fatto costruire
da Israele per devastare ancor più la popolazione e il territorio palestinese),
dal ponte sopraelevato e dalle sue strutture di protezione, e dalla porta
dell’appartamento dove vive con i genitori che, nell’ultima inquadratura, Isaac
chiude alle sue spalle, sparendo nel buio.
Recensione di Giuseppe Gariazzo
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