Ungheria, 1993
93 min.
Regia: János Szász
Sceneggiatura: János Szász, dall’omonimo dramma di Georg
Büchner
Fotografia: Tibor Máthé
Montaggio: Anna Kornis
Scenografia: Péter Mándoki
Suono: István Sipos
Musica: Purcell, Pergolesi, Ternipe Group
Interpreti e personaggi: Lajos Kovács (Woyzeck), Diana
Vacaru (Marie), Péter Haumann (il dottore), Aleksandr Porohovicskov (il
capitano), Sándor Gáspár (il poliziotto), Sándor Varga (il bambino)
[…] János Szász
spiega in maniera esauriente le motivazioni della scelta della tragedia di Büchner, un testo certamente
archetipico, oltreché spiazzato dalla sua incompiutezza, tanto da diventare
oggetto delle riesumazioni più disparate, da quella, esemplare, in chiave
espressionista
– occorre citare il capolavoro musicale di Alban Berg? – giù giù fino al lucido delirio herzoghiano. A proposito del quale il regista sgombra allo stesso modo il campo da una possibile derivazione-suggestione. Proviamo dunque ad entrare direttamente in medias res, sforzandoci di cogliere il senso di questa intensa rilettura che fatalmente si colora di altre implicazioni, offrendo, nella sua ostentata fedeltà, un tassello di importanza non secondaria in un lungo e variegato susseguirsi di rapporti intertestuali. Fin dalle prime inquadrature (la baracca in cui lavora e si rintana il protagonista, il geometrico dipanarsi di binari – «fredde parallele della vita»,avrebbe detto il Poeta – su sfondo nevoso, il viavai apparentemente insensato di altrimenti celebrati carri merci-carri merci-carri merci), appare evidente la studiata attenzione ad un paesaggio che, pur assumendo connotazioni palesemente astratte, alludendo quindi ad una “forma dell’anima”, rinvia ad un corrispettivo sociale che subito si definisce per rapidi ma incisivi tratti [...]
– occorre citare il capolavoro musicale di Alban Berg? – giù giù fino al lucido delirio herzoghiano. A proposito del quale il regista sgombra allo stesso modo il campo da una possibile derivazione-suggestione. Proviamo dunque ad entrare direttamente in medias res, sforzandoci di cogliere il senso di questa intensa rilettura che fatalmente si colora di altre implicazioni, offrendo, nella sua ostentata fedeltà, un tassello di importanza non secondaria in un lungo e variegato susseguirsi di rapporti intertestuali. Fin dalle prime inquadrature (la baracca in cui lavora e si rintana il protagonista, il geometrico dipanarsi di binari – «fredde parallele della vita»,avrebbe detto il Poeta – su sfondo nevoso, il viavai apparentemente insensato di altrimenti celebrati carri merci-carri merci-carri merci), appare evidente la studiata attenzione ad un paesaggio che, pur assumendo connotazioni palesemente astratte, alludendo quindi ad una “forma dell’anima”, rinvia ad un corrispettivo sociale che subito si definisce per rapidi ma incisivi tratti [...]
Una definizione ulteriore viene dall’incontro tra Marie e il
poliziotto, in quella disperata periferia di casermoni, violenza e abbandono,
quella taverna dove una popolazione prevalentemente zingara continua a
celebrare, pur ingabbiata nel cemento, riti tribali e vitali (di grande impatto
emotivo appare il gioco degli sguardi che si intreccia sullo sfondo della
festa, mentre una bambina così poco bambina si esibisce non senza una punta di
ributtante lascivia ballando sul tavolo, in una temperatura ambientale e morale
non lontana dai più cupi exploit di Béla
Tarr). L’eccezionale fotografia in bianco e nero di Tibor Máthé solennizza il mesto ribollire del quotidiano in una
serie infinita di sfumature di grigi, rivelando le geometrie dal nitore della
neve o confondendole in sbuffi di fumo e vapori. La deliberata inusualità delle
inquadrature (angolazioni dall’alto, dal basso e sghembe, volti e corpi dei
personaggi che si perdono in fughe di piani, occhieggiando attraverso fessure
di garitte o finestre di vagoni), lo stesso uso straniante del multiple frame
printing (un artificio che, forse pretestuosamente, ricorda le magiche
sospensioni temporali dei due western gemelli di Monte Hellman, La sparatoria e Le colline blu), contribuiscono
parimenti ad alzare il tono della narrazione, situandola nei cieli che le
competono per estrazione letteraria, quelli, appunto, della tragedia. […]
L’impianto, simbolico ed insieme sociale, in cui si muovono,
pur facendo pensare ad una Metropolis
stracciona, per stratificazione wellsiana (il mondo superno del capitano,
figura rozzamente superegoica tutta leve di comando e altoparlanti, quello
infimo degli schiavi-insetto, la figura “intermedia” del medico-ciarlatano, col
suo studio-vagone ingombro di storte ed alambicchi) e presenza “mostruosa”
delle macchine (l’auto montata sui binari che assume connotati quasi
fantascientifici), allude forse al persistere, nell’Ungheria post-comunista, di
un’obsoleta struttura gerarchica tanto più insensata in quanto orfana dei
valori (o pseudo tali) che in passato le attribuivano una seppur discutibile
giustificazione. Le striature biblico-cristologiche appartengono invece ad una
generalizzata ed irredimibile condizione umana che si macera nella sofferenza e
nel dolore.
Paolo Vecchi, Cineforum n.347, sett. 1997
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