Grecia, 2012
80 min.
Scritto e diretto da Ektoras Lygizos
Il corpo come ultima spiaggia del naufrago, il cibo
come ultima speranza nascosta nella disperazione del vivere. Un vivere ridotto
alle operazioni più elementari: ingurgitare, digerire, dormire, bere, ruttare,
vomitare, copulare, orinare, defecare, nel tentativo di eliminare, assieme alle
sostanze vitali, anche le scorie dell’ideologia borghese. Non fosse per la chiusa queste parole scritte da Alberto Scandola a proposito de La grande abbuffata si adatterebbero
perfettamente al lungometraggio d’esordio di Ektoras Lygizos. Il cibo, o
perlomeno la sua risonante assenza è il protagonista di quest’ennesima cruda
prova del nuovo cinema greco che ci racconta l’effetto paradosso delle divinità iperalimentate, un universo in
cui i frigoriferi svuotati dagli alimenti ospitano solo medicinali, dove i
contenitori di plastica degli ovetti Kinder servono a contenere i pochi
spiccioli raccattati a volte riposti negli immancabili contenitori impilabili
Ikea, semiosfera che circonda Yorgo giovane
controtenore ateniese privo di un’occupazione fissa e del tutto in bolletta
costantemente accompagnato dal lamento del suo ventre vuoto oltre che dal suo
inseparabile canarino con il quale divide il poco cibo disponibile.
Un sorprendente Yiannis
Papadopoulos riempie la pellicola, vero e proprio involucro di dolore
bergmaniano, pronto a divorare ogni avanzo, a trangugiare qualsiasi rimasuglio
commestibile, residuo egli stesso, modello d’esistenza adibita alla
subalternità, individuo a basso dosaggio vitale tiranneggiato all’uso
sussultorio dei pani ignobili per
dirla alla Piero Camporesi. Ma Yorgo non ne pare addomesticato, anzi la
marcata tinteggiatura ascetica ne fa un personaggio quasi pasoliniano, lettura
del resto confermata dallo stesso regista: per
me, questo film parla di un uomo che diventa poco a poco un santo, ma non nel
senso cristiano del termine: intendo che il personaggio si batte per restare puro
in una situazione molto dura […] un
sentimento di dignità e di fierezza che turba.
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