domenica 3 maggio 2015

Die Linkshändige Frau


Germania, 1978
113 min.
Regia: Peter Handke

 
Un treno in transito infrange la quiete di un sobborgo di Parigi, lasciando una pozzanghera sul marciapiede della stazione sussultante d'una imperscrutabile energia. Questa languida allegoria è al centro dell'austero, laconico film di Handke, prodotto da Wim Wenders, che inizia là dove L'amico americano ci aveva lasciato: all'aeroporto di Roissy. Qui, la donna (Edith Clever) ritrova il marito (Bruno Ganz) e, senza motivo apparente, lo allontana per intraprendere un incerto viaggio che ha l'ambivalenza della fuga e dell'esplorazione, della ricerca del vuoto e della contemplazione del mondo.


 
Quello che avevo intenzione d'ottenere è la monotonia nella sua forma più intensa chiarisce il regista monotonia che non dev'essere intesa nel senso di noia, ma come una forma di concentrazione ascetica sui processi elementari. Operazione indubbiamente riuscita dato che le emozioni non vengono analizzate o descritte e sono difficilmente veicolate attraverso gesti o mimica; del tutto distaccate da un uniforme scorrere del tempo. Il cinema di Handke rifugge una facile risposta psicologica, le logiche dell'allontanamento vengono sparse in tracce apparentemente slegate, gli incontri successivi con il marito, il rapporto con il figlio di otto anni, lo sguardo del regista priva il mondo della sua familiarità o, associandosi al titolo, di quell'emisfero destro che regola le funzioni emotive e creative del cervello. Più che al cinema dell’amico Wim Wenders ci si avvicina alla lezione del grande maestro giapponese Yasujirō Ozu, d’altronde ampiamente omaggiato all'interno della pellicola. I corpi, le case, il paesaggio, la narrazione va avanti per sequenze separate da stacchi ben definiti che esprimono meglio di qualsiasi definizione l'aliena distanza dei personaggi; l'enigmatica, impassibile contemplazione di un mondo senza rumore e senza moto quasi al di là delle parole.






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