sabato 20 settembre 2014

Woyzeck

Ungheria, 1993
93 min.
Regia: János Szász
Sceneggiatura: János Szász, dall’omonimo dramma di Georg Büchner
Fotografia: Tibor Máthé
Montaggio: Anna Kornis
Scenografia: Péter Mándoki
Suono: István Sipos
Musica: Purcell, Pergolesi, Ternipe Group
Interpreti e personaggi: Lajos Kovács (Woyzeck), Diana Vacaru (Marie), Péter Haumann (il dottore), Aleksandr Porohovicskov (il capitano), Sándor Gáspár (il poliziotto), Sándor Varga (il bambino)


[…] János Szász spiega in maniera esauriente le motivazioni della scelta della tragedia di Büchner, un testo certamente archetipico, oltreché spiazzato dalla sua incompiutezza, tanto da diventare oggetto delle riesumazioni più disparate, da quella, esemplare, in chiave espressionista
– occorre citare il capolavoro musicale di Alban Berg? – giù giù fino al lucido delirio herzoghiano. A proposito del quale il regista sgombra allo stesso modo il campo da una possibile derivazione-suggestione. Proviamo dunque ad entrare direttamente in medias res, sforzandoci di cogliere il senso di questa intensa rilettura che fatalmente si colora di altre implicazioni, offrendo, nella sua ostentata fedeltà, un tassello di importanza non secondaria in un lungo e variegato susseguirsi di rapporti intertestuali. Fin dalle prime inquadrature (la baracca in cui lavora e si rintana il protagonista, il geometrico dipanarsi di binari – «fredde parallele della vita»,avrebbe detto il Poeta – su sfondo nevoso, il viavai apparentemente insensato di altrimenti celebrati carri merci-carri merci-carri merci), appare evidente la studiata attenzione ad un paesaggio che, pur assumendo connotazioni palesemente astratte, alludendo quindi ad una “forma dell’anima”, rinvia ad un corrispettivo sociale che subito si definisce per rapidi ma incisivi tratti [...]



Una definizione ulteriore viene dall’incontro tra Marie e il poliziotto, in quella disperata periferia di casermoni, violenza e abbandono, quella taverna dove una popolazione prevalentemente zingara continua a celebrare, pur ingabbiata nel cemento, riti tribali e vitali (di grande impatto emotivo appare il gioco degli sguardi che si intreccia sullo sfondo della festa, mentre una bambina così poco bambina si esibisce non senza una punta di ributtante lascivia ballando sul tavolo, in una temperatura ambientale e morale non lontana dai più cupi exploit di Béla Tarr). L’eccezionale fotografia in bianco e nero di Tibor Máthé solennizza il mesto ribollire del quotidiano in una serie infinita di sfumature di grigi, rivelando le geometrie dal nitore della neve o confondendole in sbuffi di fumo e vapori. La deliberata inusualità delle inquadrature (angolazioni dall’alto, dal basso e sghembe, volti e corpi dei personaggi che si perdono in fughe di piani, occhieggiando attraverso fessure di garitte o finestre di vagoni), lo stesso uso straniante del multiple frame printing (un artificio che, forse pretestuosamente, ricorda le magiche sospensioni temporali dei due western gemelli di Monte Hellman, La sparatoria e Le colline blu), contribuiscono parimenti ad alzare il tono della narrazione, situandola nei cieli che le competono per estrazione letteraria, quelli, appunto, della tragedia. […]



L’impianto, simbolico ed insieme sociale, in cui si muovono, pur facendo pensare ad una Metropolis stracciona, per stratificazione wellsiana (il mondo superno del capitano, figura rozzamente superegoica tutta leve di comando e altoparlanti, quello infimo degli schiavi-insetto, la figura “intermedia” del medico-ciarlatano, col suo studio-vagone ingombro di storte ed alambicchi) e presenza “mostruosa” delle macchine (l’auto montata sui binari che assume connotati quasi fantascientifici), allude forse al persistere, nell’Ungheria post-comunista, di un’obsoleta struttura gerarchica tanto più insensata in quanto orfana dei valori (o pseudo tali) che in passato le attribuivano una seppur discutibile giustificazione. Le striature biblico-cristologiche appartengono invece ad una generalizzata ed irredimibile condizione umana che si macera nella sofferenza e nel dolore.
Paolo Vecchi, Cineforum n.347, sett. 1997






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