Germania, 1978
113 min.
Regia: Peter Handke
Un treno in transito infrange la quiete di un sobborgo di Parigi, lasciando una pozzanghera sul
marciapiede della stazione sussultante d'una imperscrutabile energia. Questa
languida allegoria è al centro dell'austero, laconico film di Handke, prodotto da Wim Wenders, che inizia là dove L'amico americano ci aveva
lasciato: all'aeroporto di Roissy.
Qui, la donna (Edith Clever) ritrova
il marito (Bruno Ganz) e, senza
motivo apparente, lo allontana per intraprendere un incerto viaggio che ha
l'ambivalenza della fuga e dell'esplorazione, della ricerca del vuoto e della
contemplazione del mondo.
Quello che avevo
intenzione d'ottenere è la monotonia nella sua forma più intensa chiarisce
il regista monotonia che non dev'essere
intesa nel senso di noia, ma come una forma di concentrazione ascetica sui
processi elementari. Operazione indubbiamente riuscita dato che le emozioni
non vengono analizzate o descritte e sono difficilmente veicolate attraverso
gesti o mimica; del tutto distaccate da un uniforme scorrere del tempo. Il
cinema di Handke rifugge una facile
risposta psicologica, le logiche dell'allontanamento vengono sparse in tracce
apparentemente slegate, gli incontri successivi con il marito, il rapporto con
il figlio di otto anni, lo sguardo del regista priva il mondo della sua
familiarità o, associandosi al titolo, di quell'emisfero destro che regola le
funzioni emotive e creative del cervello. Più che al cinema dell’amico Wim Wenders ci si avvicina alla lezione
del grande maestro giapponese Yasujirō
Ozu, d’altronde ampiamente omaggiato all'interno della pellicola. I corpi,
le case, il paesaggio, la narrazione va avanti per sequenze separate da stacchi
ben definiti che esprimono meglio di qualsiasi definizione l'aliena distanza
dei personaggi; l'enigmatica, impassibile contemplazione di un mondo senza rumore e senza moto quasi al di là
delle parole.
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