Russia, 2012
80 min.
Scritto e diretto da Aleksej Balabanov
C’è un campanile su un’isola in mezzo a un lago ghiacciato e
chi ci entra può ottenere la felicità ed essere trasportato altrove; non a
tutti è dato il privilegio, anche se tutti possono provarci. A seguito di una
misteriosa tempesta elettromagnetica, il territorio circostante è altamente
radioattivo e chi vi si addentra ne viene fatalmente contaminato. Fuori dal
recinto è piena estate, dentro l’inverno atomico, e il territorio sommerso
dalla neve è disseminato dei cadaveri di quelli che non ce l’hanno fatta.
L’ambiente, nei film di Aleksej Balabanov, è sempre stato importante almeno
quanto la storia e i personaggi. In questo ultimo film la storia è a dir poco
scarna e i personaggi appena accennati, in bilico tra l’essere pura emanazione
dell’ambiente e archetipi umani. A guidare l’avventurosa spedizione alla
ricerca della felicità è il Criminale (Aleksandr Mosin), ‘uomo di azione’,
antieroe positivo, impavido e donchisciottesco (una statuetta dell’hidalgo
troneggia in casa sua). Il suo amico Matveev (Jurij Matveev) è ‘uomo di
affetti’ (segue l’amico, porta con sé il vecchio padre). Il Musicista (Oleg
Garkuša) è un ‘uomo di sensibilità’, con il dono della creazione artistica. Ai
tre avventurieri si aggiungono altri due viaggiatori: il Ragazzo (Balabanov jr)
simbolo della ‘forza della mente’ (ha il dono della preveggenza), e la Ragazza
(Alisa Šitikova), incarnazione della ‘forza del corpo’ (corre nuda nella neve).
Ma come sempre nel mondo di Balabanov l’umanità non è mai divisa in categorie
morali, qualità e difetti coesistono come diverse gradazioni della stessa
attitudine. Così per eccesso di azione si uccide, per difetto di amore si beve,
la sensibilità dà amarezza, la forza della mente allontana dagli altri, la
forza del corpo li fa avvicinare troppo. La felicità non è concessa a tutti, ma
il fatto di perseguirla presuppone il desiderio di riscatto. Ciascuno ci arriva
a modo suo, ciascuno deve trovare la propria strada: da sempre è questo il modo
di vedere le cose di Balabanov. I suoi personaggi non sono mai spiegati in
termini psicologici: sono esattamente quello che fanno. Ciascuno di loro
arriverà alla meta o rinuncerà, coerentemente con la propria indole profonda.
Gli unici a cui non sarà concessa la felicità sono quelli che hanno ucciso
(fisicamente o metaforicamente) qualcun altro, negandogli la prova della
felicità.
Balabanov ha saputo cogliere come pochi altri l’anima nera
delle diverse epoche della società russa: i morbi intellettuali degli anni
Dieci (Morfij, 2008), la perversione tecnologica degli anni Venti (Pro urodov i
ljudej, 1998), la stagnazione cadaverica degli anni Settanta (Cargo 200, 2007),
l’etica criminale degli anni Ottanta (Brat, 1997), la brutalità della guerra
cecena (Vojna, 2002). Come se la resa dei conti fosse già avvenuta (il fuoco che
annienta e purifica in Kočegar, 2010), l’atmosfera plumbea e apocalittica di
quest’ultimo film travalica i confini della geografia e della storia russe,
puntando a un altrove extratemporale. Il Campanile della Felicità si trova in
uno spazio separato dal mondo. Torna inevitabilmente alla memoria la Zona
tarkovskiana di Stalker, ma qui il territorio è una carcassa abbandonata più
che un’entità psichica viva. Il regno di Utopia, già preannunciato in Cargo 200
quando – nel corso del dialogo sull’ateismo – viene citata la La Città di Dio
di Campanella, torna qui in apertura del film nell’invocazione del Musicista
davanti all’icona con una citazione letterale delle Preghiere della Torre di
Tommaso Moro che è anche l’autore dell’isola di Utopia. La ‘città degli uomini’
è un posto da cui fuggire senza esitazioni (lo vogliono tutti, per dirla col
titolo del film) perché le torri sono ciminiere. Un posto saturo di rumori
(sirene, cantieri, tamponamenti a catena), asfittico (sauna, ascensori, case
anguste) e malato dentro (farmacia, ospedale, endoscopia).
Il classico dinamismo centripeto dei personaggi di Balabanov
dalla periferia all’epicentro della Russia, dalla provincia alla città, lascia
il posto a un deciso movimento centrifugo il cui unico prodromo è nel finale di
Mne ne bolno (2006) ma con esito diverso e immanente – fallita la
ricostruzione-perestrojka in città, la rifondazione poteva attuarsi nello
spazio vergine della provincia russa e nel calore degli amici, mentre in questo
caso l’epilogo è freddo, individuale e trascendente. Identico resta però il
concetto della forza dei figli e della debolezza dei padri: Matveev porta con
sé il fantasma del padre veterano di guerra, la Ragazza si prostituisce per
aiutare la madre malata e Balabanov junior è il ragazzo veggente che conosce
tutto, laddove Balabanov senior non sa cosa che ha fatto. Una leggenda locale
narra che il campanile pendente – realmente situato tra San Pietroburgo e Uglič
– cadrà proprio quest’anno, l’apocalittico anno domini 2012. Il monologo di Matveev
davanti al falò veicola l’idea del regista: la totale palingenesi dell’umanità
presuppone una distruzione totale della civiltà, una nuova era glaciale che
come una tabula rasa permetterà una rifondazione integrale dei valori e della
società. In assenza di guide spirituali (non ci sono “stalker”, il prete viene
respinto e le chiese sono vuote e scoperchiate) il campanile della felicità
ricorda la Torre di Babele della Genesi (“una torre la cui cima giunga fino al
cielo”) ossia il sogno di un’umanità unita verso un bene comune. Il vecchio
deve perire perché possa rifondarsi il nuovo – il padre Balabanov muore e il
figlio Balabanov è proiettato in un altrove che non è dato conoscere.
Recensione di Catia Renna
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