Germania, 1984
126 min.
Scritto e diretto da Jean-Marie Straub, Danièle Huillet
[…] Il titolo del film dovrebbe far capire molte cose. Rapporti di classe: l'America è esclusa dal titolo come dal
film, a parte l'iniziale inquadratura della statua della Libertà e il carrello
finale sul fiume Missouri. Il finale
è l'unica libertà che Straub-Huillet
si concedono nei confronti del testo. Le lunghe pratiche per l'assunzione di Karl nel Teatro di Oklahoma sono condensate in una rapida sequenza in cui Karl parla con due impiegati. La
suggestiva descrizione del viaggio in treno è «riassunta» nell'immagine del
fiume, che diventa (sorta di sineddoche geografica) una parte per il tutto, un
«segno» del pianeta America. «...e soltanto ora Karl si rese conto di
quanto sia grande l'America». Rapporti
di classe, dunque. Prima di essere uno scrittore, Franz Kafka era un impiegato. Straub-Huillet
seguono una parte della critica kafkiana (Lukàcs, soprattutto Günther
Anders) vedendo in America una
lucida rappresentazione dei rapporti di classe nella società moderna, rapporti
che sono ingiusti proprio in quanto incomprensibili da parte degli sfruttati.
Ma a questo scopo non hanno bisogno di forzare il
testo letterario. America può essere
letto come una gigantesca odissea alla ricerca del posto, inteso come lavoro.
[…] Come Josef K. all'inizio (non
alla fine) del Processo, Karl è
completamente interno alla logica capitalista. La sua alienazione (per usare un
termine marxiano che già Lukàcs ha
applicato a Kafka) è nei fatti, non
nelle psicologie. Quando Karl viene licenziato dall'Albergo Occidentale, viene definito «inutilizzabile», battuta che rimane nel film. E il suo dialogo con
lo studente che lavora da Montly come
fattorino (anch'esso presente nel finale del film) è doppiamente indicativo.
Perché chiarisce la natura disumana dei rapporti di lavoro e la esemplifichi
sul terreno teoricamente più nobile, quello morale (anche «dal basso») è sospeso
nel momento in cui altri «valori» più
oggettivi hanno il sopravvento. Questa, semplificando parecchio, è l'operazione
compiuta da Straub-Huillet sul testo
di Kafka. Da un lato quella che
potremmo definire «rimozione del
fantastico», di tutti quei lati «metafisici»
che, secondo i registi, sono sempre stati sopravvalutati con il rischio di
leggere Kafka in modo deformato.
Scompaiono le fantascientifiche code di autocarri che Karl incontra sulle strade d'America,
il palco presidenziale in oro massiccio del Teatro
d'Oklahoma, i trenta ascensori dell'Albergo
Occidentale, la scrivania dai cento reparti dello zio, i labirintici vicoli
e cortili del quartiere in cui Karl
sfugge alla polizia con l'aiuto di Delamarche.
D'altro canto, l'accentuazione di tutto ciò che nel
romanzo riguarda, appunto, i rapporti di classe fra i personaggi. Sarebbe una
lettura riduttiva se Straub-Huillet
non fossero capaci di trasformarla in stile. Invece (e questo fa la splendida
riuscita del film) il linguaggio è perfettamente finalizzato allo scopo. Per
esempio, è dai tempi di Non riconciliati che i due registi fanno un uso
sapientissimo del fuoricampo in funzione narrativa. In Rapporti di classe
questo tratto stilistico diventa addirittura la chiave di volta del film. I
dialoghi (la parte più «conservabile» del testo) sono numerosissimi, e sono
tutti girati in modo che l'uso (sempre anti-tradizionale) del campo e
controcampo evidenzi immediatamente la separazione (sociale, ovviamente, prima
che psicologica) tra i personaggi. Gli interlocutori non sono quasi mai
inquadrati insieme. Ciò vale per i dialoghi di Karl con il fuochista,
con Klara, con Green e Pollunder, con
l'ostessa, con Brunelda, tutti
personaggi che sono - nella circostanza - superiori, ovvero più forti (o
inferiori, ovvero più deboli: è il caso del fuochista)
di Karl. L'eccezione, naturalmente
voluta, è il personaggio di Therese,
l'unica creatura con cui Karl trova
una momentanea solidarietà. I due sono inquadrati insieme, lui sdraiato sul
letto, lei seduta al suo fianco. E nella sequenza in cui Therese racconta a Karl
della madre, la mdp tende addirittura ad unirli, carrellando sul primo piano di
Karl che ascolta il racconto di Therese (fuori campo) e tornando alla
fine, con un secondo carrello speculare al primo, sul totale dei due. Un'altra
eccezione, altrettanto significativa, è il dialogo tra Karl e l'altro lift che gli spiega perché sia stato licenziato. Il
lift è fuori campo, la mdp inquadra Karl
che ascolta: in quel momento Karl è «inferiore» perché è stato cacciato,
mentre l'ex-collega ha saputo conservare il posto.
I movimenti di macchina sono rari e proprio per questo tanto
più pregnanti. Vanno ricordati i due lunghissimi carrelli (quello finale sul Missouri, e quello - con inquadratura
dal basso - sui docks successivo all'incontro tra Karl e lo zio) che
ricordano ovviamente quelli di Lezioni di
storia e, soprattutto, la famosa panoramica sulle Apuane di Fortini/Cani. E
forse la funzione è la stessa: stabilire un contesto in rapporto al quale il
prosciugamento del testo originario viene contraddetto, dialetticamente. Certo,
la lettura materialista di Kafka
viene portata alle estreme conseguenze stilistiche. Come nelle bellissime
inquadrature (il piano americano con lo zio,
il brevissimo carrello che lo inquadra prima sdraiato, poi seduto sul letto) in
cui Karl viene «scomposto», inquadrato «a
pezzi», come a ribadire che la frantumazione dell'individuo è ormai
compiuta.
Ma nello stesso tempo il «fantastico»,
rimosso in quanto trascrizione meccanica, rientra in gioco nella struttura
(narrativa e figurativa) del film. Perché è quasi inutile affermare che Straub-Huillet non danno certo di America una trascrizione «realistica», narrativamente
tradizionale. Non basta limitarsi a ricordare che i due registi rifiutano da
sempre le convenzioni narrative del cinema classico. Anche perché il loro
rapporto con tale cinema non è univoco. È facile sentirsi dire da Straub quanto siano importanti, nel loro
stile di ripresa e di montaggio, registi come Hawks, Lang e Hitchcock.
Rapporti di classe, inoltre, è per certi versi il più «classico» dei loro film: gli strumenti linguistici con cui Straub-Huillet costruiscono il film sono
assai meno «colti» e impervi di quelli utilizzati, per esempio, in Dalla nube alla resistenza o in Fortini/Cani. In un certo senso, Rapporti di classe è costruito con
materiali «di riporto» del cinema
popolare. Uno spettatore ignaro potrebbe quasi considerarlo un film realistico
in cui gli attori recitano male e, di tanto in tanto, succedono cose non poco «strane». Proprio per questo
l'operazione dei registi è ancora più raffinata (e rischiosa) del solito. Il
margine tra sperimentazione e comunicazione è estremamente sottile, le
convenzioni sono nello stesso tempo negate e utilizzate (si veda l'uso ironico
dell'inno americano alla fine del dialogo tra Karl e il fuochista), lo
stile «distaccato» della recitazione
è esasperato come nelle opere precedenti, ma il potenziale realistico della
situazione lo contestualizza in modo differente: lo straniamento non è totale,
esiste un continuo andirivieni tra riflessione ed emozioni in cui la «distanza» fra opera e spettatore varia
costantemente.[…]
La sensazione, insomma, è che mai come in Rapporti di classe Jean-Marie Straub e Danièle Huillet abbiano accettato di
confrontarsi a fondo con le contraddizioni insite in ogni dialettica. In questo
senso, anche la carrellata finale sul Missouri
assume una valenza diversa. È sicuramente la definizione di un contesto, la
metaforizzazione di un concetto. Ma è anche l'unico momento lirico del film. Ed
è quindi la perfetta visualizzazione di una frase che nel film è solo
apparentemente assente: «Questo manifesto
era ancora più inverosimile degli altri. Soprattutto c'era in esso un grave
sbaglio, non si accennava affatto alla paga. Se questa fosse stata appena
rispettabile, il manifesto ne avrebbe certamente parlato; non avrebbe
trascurato la cosa più invitante. Non c'era nessuno che volesse diventare
artista, ma tutti volevano essere pagati per il loro lavoro». Si parla del
manifesto del teatro di Oklahoma, ma
sembra il manifesto del cinema di Jean-Marie
Straub e Danièle Huillet. Quanti
film «inverosimili» hanno fatto!
Quante volte hanno commesso il «grave
sbaglio» di non «accennare alla
paga», segnatamente per se stessi! E quante volte hanno «trascurato le cose più invitanti»! E
proprio per questo (Straub ci
perdonerà quest'altro finale «lirico»,
che quasi certamente gli ripugnerà) hanno dimostrato che l'amara constatazione
di Kafka sulla scomparsa degli
artisti non sempre è vera. Anche se (o forse soprattutto quando) di rapporti di
classe, e non di metafisica, si parla.
Recensione di Alberto Crespi; Cineforum n. 255, 6-7/1986
Nessun commento:
Posta un commento