mercoledì 1 aprile 2015

Klassenverhältnisse


Germania, 1984
126 min.
Scritto e diretto da Jean-Marie Straub, Danièle Huillet

 
[…] Il titolo del film dovrebbe far capire molte cose. Rapporti di classe: l'America è esclusa dal titolo come dal film, a parte l'iniziale inquadratura della statua della Libertà e il carrello finale sul fiume Missouri. Il finale è l'unica libertà che Straub-Huillet si concedono nei confronti del testo. Le lunghe pratiche per l'assunzione di Karl nel Teatro di Oklahoma sono condensate in una rapida sequenza in cui Karl parla con due impiegati. La suggestiva descrizione del viaggio in treno è «riassunta» nell'immagine del fiume, che diventa (sorta di sineddoche geografica) una parte per il tutto, un «segno» del pianeta America. «...e soltanto ora Karl si rese conto di quanto sia grande l'America». Rapporti di classe, dunque. Prima di essere uno scrittore, Franz Kafka era un impiegato. Straub-Huillet seguono una parte della critica kafkiana (Lukàcs, soprattutto Günther Anders) vedendo in America una lucida rappresentazione dei rapporti di classe nella società moderna, rapporti che sono ingiusti proprio in quanto incomprensibili da parte degli sfruttati.


 
Ma a questo scopo non hanno bisogno di forzare il testo letterario. America può essere letto come una gigantesca odissea alla ricerca del posto, inteso come lavoro. […] Come Josef K. all'inizio (non alla fine) del Processo, Karl è completamente interno alla logica capitalista. La sua alienazione (per usare un termine marxiano che già Lukàcs ha applicato a Kafka) è nei fatti, non nelle psicologie. Quando Karl viene licenziato dall'Albergo Occidentale, viene definito «inutilizzabile», battuta che rimane nel film. E il suo dialogo con lo studente che lavora da Montly come fattorino (anch'esso presente nel finale del film) è doppiamente indicativo. Perché chiarisce la natura disumana dei rapporti di lavoro e la esemplifichi sul terreno teoricamente più nobile, quello morale (anche «dal basso») è sospeso nel momento in cui altri «valori» più oggettivi hanno il sopravvento. Questa, semplificando parecchio, è l'operazione compiuta da Straub-Huillet sul testo di Kafka. Da un lato quella che potremmo definire «rimozione del fantastico», di tutti quei lati «metafisici» che, secondo i registi, sono sempre stati sopravvalutati con il rischio di leggere Kafka in modo deformato. Scompaiono le fantascientifiche code di autocarri che Karl incontra sulle strade d'America, il palco presidenziale in oro massiccio del Teatro d'Oklahoma, i trenta ascensori dell'Albergo Occidentale, la scrivania dai cento reparti dello zio, i labirintici vicoli e cortili del quartiere in cui Karl sfugge alla polizia con l'aiuto di Delamarche.

  
D'altro canto, l'accentuazione di tutto ciò che nel romanzo riguarda, appunto, i rapporti di classe fra i personaggi. Sarebbe una lettura riduttiva se Straub-Huillet non fossero capaci di trasformarla in stile. Invece (e questo fa la splendida riuscita del film) il linguaggio è perfettamente finalizzato allo scopo. Per esempio, è dai tempi di Non riconciliati che i due registi fanno un uso sapientissimo del fuoricampo in funzione narrativa. In Rapporti di classe questo tratto stilistico diventa addirittura la chiave di volta del film. I dialoghi (la parte più «conservabile» del testo) sono numerosissimi, e sono tutti girati in modo che l'uso (sempre anti-tradizionale) del campo e controcampo evidenzi immediatamente la separazione (sociale, ovviamente, prima che psicologica) tra i personaggi. Gli interlocutori non sono quasi mai inquadrati insieme. Ciò vale per i dialoghi di Karl con il fuochista, con Klara, con Green e Pollunder, con l'ostessa, con Brunelda, tutti personaggi che sono - nella circostanza - superiori, ovvero più forti (o inferiori, ovvero più deboli: è il caso del fuochista) di Karl. L'eccezione, naturalmente voluta, è il personaggio di Therese, l'unica creatura con cui Karl trova una momentanea solidarietà. I due sono inquadrati insieme, lui sdraiato sul letto, lei seduta al suo fianco. E nella sequenza in cui Therese racconta a Karl della madre, la mdp tende addirittura ad unirli, carrellando sul primo piano di Karl che ascolta il racconto di Therese (fuori campo) e tornando alla fine, con un secondo carrello speculare al primo, sul totale dei due. Un'altra eccezione, altrettanto significativa, è il dialogo tra Karl e l'altro lift che gli spiega perché sia stato licenziato. Il lift è fuori campo, la mdp inquadra Karl che ascolta: in quel momento Karl è «inferiore» perché è stato cacciato, mentre l'ex-collega ha saputo conservare il posto.


 
I movimenti di macchina sono rari e proprio per questo tanto più pregnanti. Vanno ricordati i due lunghissimi carrelli (quello finale sul Missouri, e quello - con inquadratura dal basso - sui docks successivo all'incontro tra Karl e lo zio) che ricordano ovviamente quelli di Lezioni di storia e, soprattutto, la famosa panoramica sulle Apuane di Fortini/Cani. E forse la funzione è la stessa: stabilire un contesto in rapporto al quale il prosciugamento del testo originario viene contraddetto, dialetticamente. Certo, la lettura materialista di Kafka viene portata alle estreme conseguenze stilistiche. Come nelle bellissime inquadrature (il piano americano con lo zio, il brevissimo carrello che lo inquadra prima sdraiato, poi seduto sul letto) in cui Karl viene «scomposto», inquadrato «a pezzi», come a ribadire che la frantumazione dell'individuo è ormai compiuta.



Ma nello stesso tempo il «fantastico», rimosso in quanto trascrizione meccanica, rientra in gioco nella struttura (narrativa e figurativa) del film. Perché è quasi inutile affermare che Straub-Huillet non danno certo di America una trascrizione «realistica», narrativamente tradizionale. Non basta limitarsi a ricordare che i due registi rifiutano da sempre le convenzioni narrative del cinema classico. Anche perché il loro rapporto con tale cinema non è univoco. È facile sentirsi dire da Straub quanto siano importanti, nel loro stile di ripresa e di montaggio, registi come Hawks, Lang e Hitchcock. Rapporti di classe, inoltre, è per certi versi il più «classico» dei loro film: gli strumenti linguistici con cui Straub-Huillet costruiscono il film sono assai meno «colti» e impervi di quelli utilizzati, per esempio, in Dalla nube alla resistenza o in Fortini/Cani. In un certo senso, Rapporti di classe è costruito con materiali «di riporto» del cinema popolare. Uno spettatore ignaro potrebbe quasi considerarlo un film realistico in cui gli attori recitano male e, di tanto in tanto, succedono cose non poco «strane». Proprio per questo l'operazione dei registi è ancora più raffinata (e rischiosa) del solito. Il margine tra sperimentazione e comunicazione è estremamente sottile, le convenzioni sono nello stesso tempo negate e utilizzate (si veda l'uso ironico dell'inno americano alla fine del dialogo tra Karl e il fuochista), lo stile «distaccato» della recitazione è esasperato come nelle opere precedenti, ma il potenziale realistico della situazione lo contestualizza in modo differente: lo straniamento non è totale, esiste un continuo andirivieni tra riflessione ed emozioni in cui la «distanza» fra opera e spettatore varia costantemente.[…]

 
La sensazione, insomma, è che mai come in Rapporti di classe Jean-Marie Straub e Danièle Huillet abbiano accettato di confrontarsi a fondo con le contraddizioni insite in ogni dialettica. In questo senso, anche la carrellata finale sul Missouri assume una valenza diversa. È sicuramente la definizione di un contesto, la metaforizzazione di un concetto. Ma è anche l'unico momento lirico del film. Ed è quindi la perfetta visualizzazione di una frase che nel film è solo apparentemente assente: «Questo manifesto era ancora più inverosimile degli altri. Soprattutto c'era in esso un grave sbaglio, non si accennava affatto alla paga. Se questa fosse stata appena rispettabile, il manifesto ne avrebbe certamente parlato; non avrebbe trascurato la cosa più invitante. Non c'era nessuno che volesse diventare artista, ma tutti volevano essere pagati per il loro lavoro». Si parla del manifesto del teatro di Oklahoma, ma sembra il manifesto del cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Quanti film «inverosimili» hanno fatto! Quante volte hanno commesso il «grave sbaglio» di non «accennare alla paga», segnatamente per se stessi! E quante volte hanno «trascurato le cose più invitanti»! E proprio per questo (Straub ci perdonerà quest'altro finale «lirico», che quasi certamente gli ripugnerà) hanno dimostrato che l'amara constatazione di Kafka sulla scomparsa degli artisti non sempre è vera. Anche se (o forse soprattutto quando) di rapporti di classe, e non di metafisica, si parla.

Recensione di Alberto Crespi; Cineforum n. 255, 6-7/1986





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