mercoledì 22 ottobre 2014

Zbehovia a pútnici


Cecoslovacchia/Italia, 1968
101 min.
Regia: Juraj Jakubisko
Sceneggiatura: Juraj Jakubisko, Alberto Liberati, P. Rugiero, Karol Sidon, Ladislav Tazky
Montaggio: Maximilian Remen
Scenografia: Ivan Vanìcek
Suono: Alexander Pallòs
Musica: Stepán Konícek
Interpreti: Ferencz Gejza, Mikulas Ladizinsky, Helena Gorovova, Alexandra Sekulova, Augustín Kubán, Magda Vásáryová, Jana Stehnová, Samuel Adamcík, Frantisek Peto, Katarina Tekelova, Ol'ga Vronská, Olga Adamcíková, Albert Pagac, Vasek Kovarik

 
Zbehovia a pútnici offre a tutti, finalmente, l’occasione di verificare la legittimità del credito fatto dalla critica al più geniale fra i cineasti slovacchi, il poco più che trentenne Juraj Jakubisko, dotato d’un brevetto d’inventore in cui confluiscono antichi e nuovi fermenti artistici, innestati con modernissimo senso dell’immagine naif sul tronco d’una ricchissima tradizione folcloristica. I valori di Il disertore e i nomadi non sono, però, soltanto formali. Il film è sconcertante, a tratti bellissimo, per l’esuberanza visiva con cui mescola toni teneri e crudeli su sfondi scenografici allucinati
, ma la sua vera grandezza consiste nell’unità d’ispirazione raggiunta fra la rinunzia al mandato propagandistico (che non è affatto una dimissione ideologica) e il delirio stilistico chiamato a pronunciarla. Parente stretto dell’ungherese Jancsó e di quanti altri artisti dell’Europa orientale hanno vissuto esperienze per lo meno altrettanto alienanti di quelle imposte all’Occidente dalla civiltà del benessere, Jakubisko ha un’idea cupa e tetra, ma insieme eccitante, della storia, che vede dominata dal trono della Morte, figlia del Dio della Violenza e nutrice di reciproche stragi. La conferma gli viene da tre momenti, corrispondenti ai tre episodi del film (in origine suddiviso in due mediometraggi) in cui l’umanità è condotta ad autodistruggersi dall’assurda bestialità della natura.


  
Il primo si svolge sul finire della prima guerra mondiale, quando un disertore zigano, nauseato delle atrocità del fronte, torna al paese in cerca di pace e invece viene ucciso con un amico dagli ussari, sopraggiunti a reprimere una rivolta anarchica che ha insanguinato il villaggio. Il secondo è ambientato nel ‘45, e racconta a suo modo il dramma della vita contadina, straziata dai partigiani e dai soldati sovietici che devastarono, in cerca di eroi, la terra e l’anima della Slovacchia con alterni massacri. Nel terzo, datato all’indomani d’un’esplosione nucleare, gli uomini superstiti si trucidano a vicenda. La Morte resta disoccupata… Per intonare questa tragica ballata, che per molti aspetti è l’equivalente grottesco d’una sacra rappresentazione, Jakubisko dispone d’una magia visiva senza eguali. Come nel sabba d’un pittore nutrito di letture barocche ed espressioniste, di esempi discesi da Fellini e da Paradjanov, di modelli stilistici in cui le ingenuità dell’arte povera riecheggiano i giochi squisiti dei surrealisti, il film è un torrente d’azione e di luce, dominato da tinte soavi e perverse, che travolge in una estasi angosciosa ogni senso razionale. Posseduto dalla violenza dell’immagine, che ha per emblema la figura della Morte impersonata da un attore sinistro e gigantesco, lo spettatore partecipa attraverso l’emozione visiva al disordine del mondo, ma nel momento in cui afferra il proprio misero destino ne riacquista con la fantasia la gioiosa vitalità. Film di quest’ampiezza di tastiera, così aderenti ai sobbalzi dell’anima moderna, usciti di prepotenza dal cuore e dagli occhi di artisti in tumulto, non sono quasi mai privi di difetti. Il disertore e i nomadi non fa eccezione alla regola: anche qui sono parti meno riuscite, dove l’estetismo celebra i propri trionfi e la frenesia spettacolare cede all’orrido o all’arzigogolo rococò. Tuttavia è uno scotto che si paga volentieri, aghi in un pagliaio infiammato dal talento. Raramente il piacere di guardare e di scottarsi è così libero e grande come nel film di Jakubisko.
Recensione di Giovanni Grazzini





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