mercoledì 7 gennaio 2015

Les trois coronnes du matelot



Francia, 1983
118 min.
Regia di Raoul Ruiz


La geografia del Cile è condizionata dalla presenza di una frammentata fascia costiera formata da coste alte e rocciose con limitatissime spiagge sabbiose. È nella decima regione che il Cile inizia a perdere la propria solidità continentale, disgregandosi in una miriade d’isole e d’isolotti australi. Chiloè è la maggiore di questo vasto arcipelago selvaggio e frastagliato, isola famosa per la nerezza dei suoi temporali e della sua terra per usare le parole di Bruce Chatwin. Quando cala la nebbia molti sostengono che appaia la Caleuche, una nave fantasma carica d’oro e di spettri, condannata a solcare i mari in eterno senza una meta precisa a cui un destino avverso impedisce di tornare a casa, dipinta di bianco e sempre illuminata, può navigare a vele spiegate sopra e sotto le onde del mare. Leggenda narrata dai vecchi ai bambini che certo non poteva lasciare indifferente il cileno, anche se idealmente apolide, Raoul Ruiz cineasta che del racconto popolare, sulla fabula ha costruito il suo onnivoro universo cinematografico o meglio come scrive Edoardo bruno: la capacità di affabulare, nel segno di un mondo alla rovescia, all’incrocio tra il reale e il demoniaco, nella cultura perversa del ‘900 tra Surrealismo e Dada, psicanalisi e cinema, erotismo e religione.



 
Visione caleidoscopica, allucinata che attraversa Les trois coronnes du matelot pellicola che come giustamente fa notare Sergio Arecco: sta piantato al centro della tortuosa filmografia ruiziana come un grosso, levigato diamante dalle cui mille sfaccettature si dipanano le storie raccontate dal marinaio, storie dai colori inventati e dalle forme mutanti, provenienti dai mille luoghi in cui la sua nave è approdata e dove ha raccolto altre frantumate immagini di esistenze spettrali, storie da ricordare e ripetere ad altri marinai e altri ascoltatori nelle smisurate distese che li separano dal ritorno a casa o perlomeno quella che potrà essere ricomposta in un luogo altro. Continua Sergio Arecco: Il giorno più bello del marinaio è il giorno che assomma in sé il maggior numero di giorni e di vite e di viaggi possibili, il maggior numero di sconfinamenti da un viaggio all’altro, da una vita all’altra, da un’identità all’altra, da una moneta del sogno a un’altra moneta del sogno.


 
Come nel paradosso dell'eleata il sogno si disgrega in altro sogno e quello in altro e in altri, che tessono oziosi un ozioso labirinto. Lo spettro di Jorge Luis Borges, l’artefice de Il giardino dei sentieri che si biforcano, romanzo totale che simula tutte le infinite e quindi labirintiche possibilità narrative aleggia in parte celebrato e in parte schernito dalla biblioteca che racchiude tutte le storie e che contiene uno dei mefistofelici bambini del cinema ruiziano che rendono lo spazio inesauribile, il tempo reversibile e la permanenza possibile soltanto in una situazione paradossale creata mediante l’artificio della narrazione. Una costruzione con finestre irraggiungibili e soffitti rovesciati fatta per non essere abitata, essa non solo è in contrasto con le simmetrie del labirinto, ma contraddicendo ogni ragione contamina il passato e il futuro come l’inganno della nave fantasma ovvero il riflesso di una nave reale, posta al di là dell'orizzonte d’osservazione... Io sono stato Omero; tra breve sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve sarò tutti: sarò morto.





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