118 min.
Regia di Raoul Ruiz
La geografia del Cile è condizionata dalla presenza di
una frammentata fascia costiera formata da coste alte e rocciose con
limitatissime spiagge sabbiose. È nella decima regione che il Cile inizia a perdere la propria
solidità continentale, disgregandosi in una miriade d’isole e d’isolotti
australi. Chiloè è la maggiore di
questo vasto arcipelago selvaggio e frastagliato, isola famosa per la nerezza dei suoi temporali e della sua
terra per usare le parole di Bruce
Chatwin. Quando cala la nebbia molti sostengono che appaia la Caleuche, una nave fantasma carica d’oro
e di spettri, condannata a solcare i mari in eterno senza una meta precisa a
cui un destino avverso impedisce di tornare a casa, dipinta di bianco e sempre
illuminata, può navigare a vele spiegate sopra e sotto le onde del mare.
Leggenda narrata dai vecchi ai bambini che certo non poteva lasciare
indifferente il cileno, anche se idealmente apolide, Raoul Ruiz cineasta che del racconto popolare, sulla fabula ha costruito il suo onnivoro universo
cinematografico o meglio come scrive Edoardo
bruno: la capacità di affabulare, nel segno di un mondo alla rovescia,
all’incrocio tra il reale e il demoniaco, nella cultura perversa del ‘900 tra
Surrealismo e Dada, psicanalisi e cinema, erotismo e religione.
Visione caleidoscopica,
allucinata che attraversa Les trois
coronnes du matelot pellicola che come giustamente fa notare Sergio Arecco: sta piantato al centro della
tortuosa filmografia ruiziana come un grosso, levigato diamante dalle cui
mille sfaccettature si dipanano le storie raccontate dal marinaio, storie dai colori inventati e dalle forme
mutanti, provenienti dai mille luoghi in cui la sua nave è approdata e dove
ha raccolto altre frantumate immagini di esistenze spettrali, storie da
ricordare e ripetere ad altri marinai e altri ascoltatori nelle smisurate
distese che li separano dal ritorno a casa o perlomeno quella che potrà essere
ricomposta in un luogo altro. Continua
Sergio Arecco: Il giorno più bello del
marinaio è il giorno che assomma in sé il maggior numero di giorni e di vite e
di viaggi possibili, il maggior numero di sconfinamenti da un viaggio
all’altro, da una vita all’altra, da un’identità all’altra, da una moneta del
sogno a un’altra moneta del sogno.
Come nel paradosso dell'eleata il sogno si disgrega in altro sogno e
quello in altro e in altri, che tessono oziosi un ozioso labirinto. Lo
spettro di Jorge Luis Borges, l’artefice
de Il giardino dei sentieri che si
biforcano, romanzo totale che simula tutte le infinite e quindi labirintiche
possibilità narrative aleggia in parte celebrato e in parte schernito dalla
biblioteca che racchiude tutte le storie e che contiene uno dei mefistofelici bambini del cinema ruiziano che
rendono lo spazio inesauribile, il tempo reversibile e la permanenza possibile
soltanto in una situazione paradossale creata mediante l’artificio della
narrazione. Una costruzione con finestre irraggiungibili e soffitti rovesciati
fatta per non essere abitata, essa non solo è in contrasto con le simmetrie del
labirinto, ma contraddicendo ogni ragione contamina il passato e il futuro come
l’inganno della nave fantasma ovvero il riflesso di una nave reale, posta al di
là dell'orizzonte d’osservazione... Io sono stato Omero; tra breve sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve
sarò tutti: sarò morto.
Nessun commento:
Posta un commento