Brasile, 2008
80 min.
Regia: Julio Bressane, Rosa Dias
80 min.
Regia: Julio Bressane, Rosa Dias
Due sconosciuti, un uomo e una donna, s'incontrano in un cimitero
deserto; lei cade, lui la soccorre e le promette che con lui non avrà
più nulla di cui preoccuparsi. Così inizia il delizioso arguto e
felicissimo piccolo film che il maestro brasiliano Julio Bressane porta
in Orizzonti a Venezia 65. Parlandosi poco e guardandosi molto, la coppia trascorre giorni di
irreale sospensione: prima lei scrive sotto dettatura di lui saggi sui
temi più disparati, dalla mitologia ai veleni; poi lui chiede a lei di
fare da modella per una serie di foto che ritraggono la ragazza in
costume adamitico, insistendo su particolari anatomici, espressioni
ammiccanti, pose bizzarre. Poi la comparsa d'un topo sconvolge la vita
della coppia provocando conseguenze ben più estreme della morte.
Il sessantaduenne Bressane racconta a un primo livello la difficile relazione tra l'uomo e la donna che in ogni modo cerca di possedere: prima è la mediazione della cultura (il dettato dei saggi, le relative dissertazioni), poi il tentativo d'un possesso attraverso l'oggettivazione della fotografia. Ma il roditore manifesta la sua prima supremazia simbolica insinuando i denti lungo gli scoscesi sentieri dei più intimi recessi erotici della modella, immortalati dalla macchina fotografica: poi, mentre l'ignaro fotoamatore è indaffarato nel piazzar trappole in cerca di vendetta, il topolino ratifica la conquista della donna esplorandone fisicamente il sesso, e ricevendo in cambio il premio della di lei soddisfazione […] l'oggetto del desiderio interdetto all'uomo che l'ha scelta e accolta, e che è riuscito ad amare solo attraverso il feticcio mediatore del suo riflesso.
Che all'uomo interessi più la copia dell'originale -
più il doppio, culturale o visivo, che della realtà produce e meno la
sua originaria oggettualità - è presto evidente; il finale però spinge
il discorso oltre i limiti del consueto.[…] Bressane mostra ancora una volta la sua mirabile arte di cineasta,
versata in un film di cinema-cinema, dove le inquadrature mostrano la
propria immensa vastità risuonando nello spazio e nel tempo. A erva do
rato compone in un un'ora e venti un'ironica, arguta riflessione non
solo sul voyeurismo in quanto tale, ma sullo sguardo consumistico del
tempo presente, sull'ossessione del possesso, anche e soprattutto
attraverso le immagini, dei corpi e delle identità. Non un capolavoro,
ma il misuratissimo e sapiente apologo d'un grande artefice di cinema.
Recensione di Silvio Grasselli
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